Antologia

Antologia letteraria. Scritti, narrazioni e ricordi di Ceglie Messapica (Brindisi)

Gastronomia cegliese, arte che viene da lontano

 

  di Pasquale Elia 

 

E' risaputo che i Messapi, nostri antenati, erano degli ottimi allevatori, soprattutto, di ovini. E proprio per questo motivo la tradizione paesana vuole che la nostra arte culinaria sia basata sulla preparazione di carni di capretto o di agnello.

Il piatto principale locale a base di carne, infatti, è proprio il capretto o l'agnello cotto alla brace, al ragù, al forno, brasato, ecc. E che dire della pecora in umido, la cosiddetta cipuddàt'. Trattasi della carne di pecora in brodo con tanta cipolla, patate, pomodori, sedano e vari aromi.

            La cucina nostrana è sicuramente genuina, originale e gustosa, ricca di odori: basilico, origano, alloro, capperi. Essa è imperniata sui prodotti assai saporiti dell'agricoltura locale, in special modo le verdure, l'olio di oliva, il vino, le mandorle.

            Non molte città possono far risalire a oltre 3000 anni fa le proprie tradizioni gastronomiche. Ceglie deve essere molto orgogliosa di questa sua prerogativa. E' un privilegio che non tutte le città meridionali possono vantare.

            Nella cucina nostrana possiamo notare che dell'animale macellato e destinato a sfamare veniva e viene tuttora, fatta eccezione per alcune parti, soprattutto da quando è stato chiuso il macello comunale, utilizzato tutto o quasi.

            I nostri nonni avevano imparato a proprie spese, nessuna parte dell'animale doveva essere buttata, neanche le cosiddette estremità (piedini, orecchie, muso, codino di maiale, testine di capretto o di agnello, testicoli di vitello, ecc.).

Pure il sangue dell'animale veniva recuperato. Da quello del maiale veniva, per esempio, confezionato il cosiddetto sanguinaccio. Prelibatezza esclusivamente nostra. Esso veniva preparato dalla moglie del macellaio con l'aggiunta di aromi vari e gustato soprattutto caldo caldo nel suo budello direttamente nella cosiddetta Vucciarìa  (macelleria). Era di una squisitezza più unica che rara. Peccato che è stato eliminato, diremo a giusta ragione, dal commercio!

Dal pollo, che sgozzato in casa da tutte le buone e coraggiose massaie di una volta, si raccoglieva il sangue, il fegato, il cuore, ecc. con cui si preparava un soffritto che diventava uno stuzzichino di appannaggio per grandi e piccini.

Fegatini di capretto o di agnello (gnummarièdd') avvolti con l'intestino degli stessi (li 'ntram'), involtini di trippa in brodo, ed altro, insomma bocconcini davvero gustosi e prelibati, da intenditori, non c'è che dire.

Alcuni buongustai, anche di altre regioni italiane che hanno gustato i nostri piatti, usano additarli ad amici e conoscenti addirittura con l'appellativo di bocconi di cardinale.

Altri prodotti nostrani di cui dobbiamo essere molto fieri, soprattutto in questo ultimi tempi in cui tanto si parla di dieta mediterranea, sono l'olio extravergine di oliva e il vino, elementi fondamentali nella cucina pugliese, in genere, cegliese, in particolare.

Negli anni passati tutti coloro che possedevano un piccolo terreno (nel dialetto locale: u' foor') curavano con tanto amore alcune viti, tanto quanto potevano essere sufficienti a produrre alcune centinaia di litri di vino da tenere in casa per la stagione invernale.

A fine settembre, raggiunta la giusta maturazione, l'uva veniva vendemmiata da parenti e amici appositamente invitati per l'occasione. Era una giornata di allegria e di festa per tutti, specialmente per i bambini, i quali poi si divertivano a pigiare l'uva, a piedi nudi, nel palmento (meglio conosciuto: palummiend').

Il palmento era una vasca abbastanza larga e poco profonda in mattoni o in cemento, a volte scavato nella roccia impermeabile, usato per la pigiatura e la fermentazione del mosto.

Il vino ottenuto, a volte, di grado alcolico abbastanza elevato (14°-15°), veniva fatto fermentare, di solito, nelle giare in creta, meglio noti, capasoni.

Nei mesi invernali, il vino in eccesso al fabbisogno famigliare, ricevuta dalle autorità annonarie l'autorizzazione, veniva venduto, di solito, nelle stesse abitazioni e come segno di riconoscimento, si appendeva sulla porta un ramo di alloro, detto pannèl'.

Gli uomini la domenica o i giorni festivi si incontravano in quelle abitazioni, dove trascorrevano gran parte del pomeriggio e della sera a giocare a primèr' o primièr' e a bere vino. Il cantiniere, per aiutare gli avventori a consumare più vino, faceva preparare dalla consorte alcune pietanze, un po' più pepate e salate della norma quali: purpiètt' puvurièdd', gnumarièdd' di tripp' in brod', tripp' cu' li fasùl', past' j cicir', rabbicol' suffucàt', cas'punt' cu lu pan' fatt'a'cas', pan' e ricott'ascquand', dòl-gh' cu lù ris'.

Nella nostra cucina tradizionale fa ancora capo un piatto che, secondo alcuni studiosi, risalirebbe addirittura ad almeno seimila anni fa. Trattasi del cosiddetto grano cotto che alla paesana maniera suona gran'pisàt'. E' il chicco di grano che, con un particolare procedimento, viene spogliato della sua pula, lessato in abbondante acqua salata, condito con cacioricotta e pomodoro, meglio se con una spruzzata abbondante di formaggio pecorino e possibilmente ragù con carne di maiale.

  Tra le minestre sono da ricordare le  fav' (purea), scarfàt' ijnt' a lu' tiest', servite con pipicannèdd' piccinn' (a Napoli: friarielli) fritti con o senza pomodori, fogghj sciers', rabbicòl', cicuredd', alij matur', pipicannèdd' sottacit', cipodd' e, a secondo delle stagioni, juv', pèr', cucuzza addilissàt' con menta e aceto, jov'rutt' a' l'acqu', vampasciùn fritti,    l'fav'spuntàt'. Non possiamo dimenticare u' pan'cuètt'. Sono fette di pane raffermo condite con olio dopo la cottura in acqua con verdure miste e patate; infine, le fris' o frisèdd' condite con uèggh', sal', pum-dòr', arièn' e ammorbidite in acqua.

Non possiamo assolutamente dimenticare le rinomate e ormai ricercate stacchiodd' (italianizzate orecchiette), "fatte a mano in casa" con farina bianca di grano duro oppure del tipo integrale (gruess'), condite con cacioricotta (in alternativa: pecorino o parmigiano), pummdòr' e basinicòl'.

Molto famosi e, da qualche tempo ritornati, prepotentemente, alla ribalta nel periodo natalizio, sono i fichi seccati al sole, ripiene con mandorle e poi cotti al forno (fich' maritàt').

E, come in tutte le cose, si formano poi delle varianti. Alcuni, per esempio, aggiungono della scorzetta di limone, altri, quando i fichi sono ancora caldi, appena tirati fuori dal forno, vi spolverano sopra cioccolato in polvere. Ma le nostre nonne aggiungevano quello che trovavano sul luogo di coltivazione, cioè, finocchietto selvatico. Il cioccolato, allora, era inesistente, o se venduto nelle drogherie era, certamente, inaccessibile per le tasche dei più.

            L'astro era ed è certamente la mandorla, la quale intera, tritata, macinata, tostata, trova sempre sistemazione in tutte le ricette. Dai biscotti tradizionali cegliesi (puscuèttl'), ricoperti di zucchero e cacao o solo zucchero (cilèpp'), alla pasta reale dallo squisito e delicato sapore.

            Una volta, non tanto lontano, poi, era tradizione, nelle ricorrenze importanti (matrimoni, battesimi, cresime), venivano distribuiti a parenti ed amici, caratteristici dolcini  confezionati con mandorle tritate, zucchero e miele ed innaffiati da ottimo rosolio artigianalmente, preparato in casa.

            Mi dispiacerebbe dimenticare l' pettl', l' purciddùzz', l' cartiddàt', noti a tutti.

 

UNA RICETTA

 

-         Cicir' - fasùl' - dol gh':  si mettèvn' a bagn' a ser', a matìn' dopp', si cambiàv' l'acqu', si mittèvn' jint' a pignàt' vicin' a lu' fuech', si fascevn' ferv'. A mez' cuttùr', si sculàvn' e si cunzàvn' cu la cipòdd', pumdòr', l'agghji', a frasch' d' lor e lu finùcch' scièrs'.

      Quann' si mangiavn' si miscàavn' cu nu picch' d' past' o d' ris' e uegghj d'alij.

 

 

            

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