L’avvocato Augusto Conte ricostruisce il dibattimento che portò Cristo alla crocifissione. Da una parte il profilo di fede e dall’altra l’istruttoria con le accuse discusse secondo le regole “ebraiche” e il rito processuale romano. Dal libro “Umanesimo della Legge”
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di Augusto Conte
Il processo a Gesù può essere ricostruito su due piani: il processo a Gesù nella fede, che riguarda la teologia, e il processo a Gesù nella concretezza della storia, che riguarda la “laicità” e storicità del contesto e dei fatti che portarono all’arresto, al processo e alla condanna.
L’altra questione riguarda la concomitanza, e la sovrapposizione, di un processo trattato dal Sinedrio, secondo regole “ebraiche”, e di un processo trattato da Ponzio Pilato, secondo il rito processuale romano.
Le cause e le motivazioni dell’arresto sono convergenti, nell’uno e nell’altro processo, sia pure sotto aspetti autonomi e particolari: al Governatore della Giudèa premeva di mantenere l’ordine pubblico: al Sinedrio interessava custodire la tradizione: il Vangelo di Marco (6,56) descrive la “confusione” creata all’arrivo di Gesù nei villaggi, nelle campagne e nelle città dove si creava un affollamento, specialmente di infermi che lo pregavano di toccare almeno la frangia del mantello, essendosi diffusa la voce che quanti lo toccavano guarivano, formando folle di persone che si accalcavano per ottenere qualche beneficio, o di curiosi che si aspettavano di assistere a guarigioni miracolose; queste manifestazioni da un lato allarmavano l’autorità romana occupante preoccupata di mantenere l’ordine ed evitare sobillazioni, specialmente provenienti da frange ribelli alla dominazione romana: una delle comunità era quella degli Zeloti, formata soprattutto secondo il giudizio dei romani, da “terroristi” e criminali che sobillavano il popolo per ribellarsi e ottenere l’indipendenza del Regno di Giudèa, rappresentanti della ortodossia e dell’integralismo ebraico e tra questi vi era Barabba (ma Zeloti erano anche Giuda, Pietro, Simone il Cananeo, detto lo Zelota). In effetti, alcuni anni dopo, nel 66 d. C. la guarnigione romana venne massacrata a seguito di una rivolta, domata poi da Tito nel 70 con la riconquista di Gerusalemme da parte dell’Imperatore Tito Flavio Vespasiano, che distrusse la Città e il Tempio.
Il miracolo “destabilizzante” di Lazzaro e la reazione dei Sacerdoti

Al Sinedrio preoccupava la messa in discussione del loro ministero, anche in riferimento concreto alla protezione del Tempio, la cui occupazione poteva scatenare l’azione repressiva dei romani; e in effetti questa si verificò alcuni anni dopo nel 66 d. C.: la preoccupazione dei Sacerdoti si era accresciuta dopo che si era diffusa la voce della resurrezione di Lazzaro, morto da quattro giorni; del resto esistevano tensioni anche all’interno del Sinedrio, per le diverse posizioni sulla Legge; i Sadducei, rappresentavano l’”aristocrazia”, appartenevano a una corrente spirituale del tardo giudaismo che si richiamava al leggendario Zadok, Sommo Sacerdote del Tempio di Salomone, come racconta lo storico Flavio Giuseppe nel 93/94 d. C. nella “Storia universale del popolo giudaico”, che a differenza dei Farisei, che ritenevano superiore la legge orale e la tradizione interpretativa, tenevano in considerazione solo la Legge scritta (Bibbia o Torah) e non credevano nella immortalità dell’anima e nella resurrezione; i Farisei costituivano un gruppo “politico” religioso-giudaico più significativo, che si “distinguevano” (da qui il nome), che, sempre secondo Flavio Giuseppe erano incaricati di applicare la Legge e riferivano ogni cosa al giudizio di Dio; gli Scribi, continuatori dei Profeti, erano specialisti nella trascrizione dei testi ebraici, dotti conoscitori di regole e dottrine culturali ed etiche, custodi delle leggi e dei libri sacri, che interpretavano per il popolo, in concorrenza con i Sacerdoti; gli Esseni erano uniti in comunità monastiche eremitiche, costituenti un gruppo ebraico che si ritenevano “santi”.
L’arrivo di Gesù aumentò le preoccupazioni perchè fu accolto trionfalmente in una situazione gravida di pericoli, per l’affollamento dovuto alla ricorrenza della festa di liberazione e di resurrezione ebraica.
“Se lo lasciamo fare tutti crederanno in lui”
Oltre ai miracoli preoccupavano, in quel contesto, le parole di Gesù recepite dai Sacerdoti, come riferisce Marco (14,58): “Noi lo abbiamo udito mentre diceva: <distruggerò questo Tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo>”; pertanto, come racconta Giovanni (47,53 e 11,57): “I capi dei Sacerdoti e i Farisei, quindi, riunivano il Sinedrio e dicevano: <Che facciamo? Perchè quest’uomo fa molti segni miracolosi. Se lo lasciamo fare, tutti crederanno in lui; e i Romani verranno e ci distruggeranno come città e come nazione>; uno di loro, Caifa, che era Sommo Sacerdote quell’anno, disse loro: <Voi non capite nulla e non riflettete come torni a vostro vantaggio che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione> Or egli non disse questo di suo; ma siccome era Sommo Sacerdote in quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire in uno i figli di Dio dispersi. Da quel giorno dunque deliberarono di farlo morire…Or i capi dei Sacerdoti e i Farisei avevano dato ordine che se qualcuno sapesse dov’egli era, ne facesse denuncia perchè potessero arrestarlo”.

Allarmavano anche le diffusioni sulla distruzione del tempio formulate da Gesù e riferite da Luca (21,5-19): “In quel tempo, mentre alcuni parlavano del Tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: <Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta…Il tempo è vicino>” e l’avvenuta cacciata dei mercanti dal Tempio. I Sacerdoti erano anche memori della profezia di Malachìa (3,19-20a): “Ecco: sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno, venendo, li brucerà – dice il Signore degli eserciti – fino a non lasciar loro né radice, né germoglio”.
E la notte del giovedì Gesù fu arrestato, senza una accusa specifica, subendo i primi maltrattamenti, per disposizione del Sinedrio, organo con competenze legislative, giudiziarie ed esecutive riguardante non solo la vita religiosa ma anche gli aspetti di vita sociale e politica, che, nel particolare momento storico della occupazione romana doveva mantenere un equilibrio con gli occupanti.
Condannato fin dall’arresto e con una fase istruttoria già precostituita
Nel racconto dei Vangeli Sinottici, Gesù venne condotto nel Palazzo di Caifa; secondo Giovanni, che si differenzia in parte dagli altri Sinottici, Gesù venne condotto prima dinanzi al già Sommo Sacerdote, suocero di Caifa, Anna, per rispetto della sua autorevolezza, che interrogatolo (Giovanni 18, 12-13; 19-23; 18,24) lo inviò da Caifa; dinanzi al Sommo Sacerdote in carica, alla presenza di scribi, farisei anziani, componenti del Sinedrio, Gesù si equiparò a Dio, venendo maltrattato e accusato di bestemmia comportante la pena capitale.
Al mattino venne condotto dinanzi al Consiglio di anziani, gran sacerdoti, scribi e farisei e Gesù si dichiarò Figlio di Dio.
Dopo l’interrogatorio, ormai fin dal primo momento “condannato” dal Sinedrio, all’esito di quello che viene considerato come un primo processo, ma costituente più propriamente una fase istruttoria preliminare, venne condotto da Ponzio Pilato, Prefetto (Governatore) della Giudèa dal 26 al 36 d. C., probabilmente non per un nuovo processo, ma perchè il Sinedrio non poteva eseguire pene capitali, perchè, come riferisce Giovanni (18, 12-13): “A noi non è lecito far morire nessuno” e perchè gli atti compiuti davanti al Sinedrio, secondo la procedura, avevano la finalità, eseguito l’interrogatorio, di formulare un preciso atto di accusa; infatti la dominazione romana aveva introdotto nella Giudèa la Lex Iulia iudiciorum publicorum pubblicata dall’Imperatore Augusto, che prevedeva la formulazione dell’accusa, spettando al Sinedrio – dopo l’interrogatorio e la istruttoria, in verità molto sommaria fondata sulle domande dei Sacerdoti e sulle risposte di Gesù, essendosi già risolti i Sacerdoti a far condannare Gesù – approntare un atto di accusa da presentare al Prefetto romano per celebrare il processo sulla accusa di lesa maestà. Giuseppe Flavio, nell’opera “La Guerra Giudaica”, 2, 17 scriveva che il Sinedrio aveva facoltà di condannare e giustiziare chi bestemmiava contro Dio e contro il Tempio, ma per poter eseguire la condanna bisognava avere l’approvazione del Grovernatore Romano.
Reato per essersi dichiarato Figlio di Dio, ma prevalse il carattere “politico”
Gli elementi forniti a Pilato consistevano nelle affermazioni di Gesù di essere figlio di Dio, riportate, con qualche variante dai Sinottici, Matteo, Marco e Luca: già dalla prima notte alla domanda del Sommo Sacerdote “Ti scongiuro, per il Dio vivente, perchè ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”, Gesù rispose: “Tu l’hai detto. Anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo”; ottenendo in risposta dal Sarcerdote: “Ha bestemmiato! Perchè abbiamo ancora bisogno di testimoni? Ecco, ora avete udito la bestemmia: che ve ne pare?” e i componenti del Sinedrio risposero: “E’ reo di morte!” (Matteo, 26 -63-66; Luca (22, 66-71) (“sentenziarono”, scrive Marco, 14,60-64). A Pilato i Sacerdoti riferirono le accuse più che altro di carattere “politico”, di avere sobillato il popolo, di disobbedire al pagamento del tributo dovuto allo Stato romano, di essere il Cristo-Messia: la principale accusa di “bestemmia” non poteva interessare il Governatore.
Nel Pretorio, dinanzi a Ponzio Pilato, erano comparsi i Sommi Sacerdoti e il popolo; dopo il primo interrogatorio, secondo Luca (23,7) Pilato mandò Gesù davanti a Erode Antipa, Re della Galilea di provenienza di Gesù, che “in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme”, proveniente dalla sede di Tiberiade per celebrare la Pasqua probabilmente per evitare di giudicarlo, non ritenendolo colpevole dinanzi allo Stato romano, ricorrendo alla incompetenza territoriale trattandosi di competenza del forum domicilii anziché del forum commissi decliti: il Re, facendolo rivestire di una splendida veste rossa lo rimandò a Pilato.
Ripreso il processo Pilato concentrò la sua attenzione sull’accertamento di quanto riferitogli, circa la presunta dichiarazione di Gesù di essere Re dei Giudei, perchè ove rispondesse al vero, veniva integrato il reato di lesa maestà punibile con la condanna a morte e secondo Giovanni (18,33) gli domandò: “Tu sei il re dei Giudei?”, e Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”; e Pilato: “Sono io forse giudeo? La tua gente e i Sommi Sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?”; Gesù rispose: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perchè non fossi consegnato ai giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. E Pilato, incalzando: “Dunque tu sei re?”. E Gesù: “Tu lo dici”: io sono re. Per questo io sono nato e per questo io sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è nella verità, ascolta la mia voce”. Pilato osserva: “Quid est veritas?”.
Le mani in acqua di Pilato tra la condanna a morte urlata dal popolo

Visto che non otteneva nulla Pilato, anche per il dubbio insinuato nel suo animo dalla moglie Claudia Procula, compì il gesto consegnato alla storia di lavarsi le mani, convinto della sua innocenza e come scrive Matteo (27,24-26): “Pilato, visto che non otteneva nulla, si lavò le mani davanti alla folla: <Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi”. Pilato fece flagellare Gesù, probabilmente per la sua reticenza, ritenendo adeguata la pena corporale. La condanna a morte fu decretata dal Popolo, istigato dai Sacerdoti, che invocava la crocifissione: “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”. E decretò la liberazione di Barabba, in attuazione della “amnistia” concessa a un condannato in occasione della Pasqua, su acclamazione del popolo, che lo “preferì” a Gesù, umiliandolo con la corona di spine e la flagellazione.
La storicità della condanna a morte venne riferita da Tacito a proposito dell’incendio di Roma del 64 d. C. attribuito a Nerone (Annali, XV, 44): “Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani: Origine di questo nome era Christus, il quale sotto l’Impero di Tiberio era stato condannato all’estrema condanna dal Procuratore Ponzio Pilato”; altre fonti sono rappresentate ai Vangeli e da altri indiretti riferimenti di storici, compreso Flavio Giuseppe nell’opera citata del 93/94 d. C.: “Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a sé molti giudei, e anche molti dei greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì in croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già anunziato i divini profeti queste e migliaia di altre meraviglie riguardo a lui. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani”.
Ponzio Pilato, la cui storicità è stata ultimamente confermata dal ritrovamento di una lapide “Caesarensibus Tiberium – Pontius Pilatus Praefectus Iudae”, secondo la leggenda nativo di Bisenti (Teramo), fu “destituito” nel 36 d. C. dal Governatore Lucio Vitellio, che lo inviò a Roma per scagionarsi davanti all’Imperatore, anche per avere provocato diversi morti durante un premeditato scontro con gli ebrei, uniti in massa per una cerimonia religiosa e per avere provocato tumulti quando aveva utilizzato il sacro tesoro per costruire un acquedotto, come riferisce Flavio Giuseppe, che completa il racconto riferendo che Vitellio rimosse dal suo ufficio anche il Sommo Sacerdote Giuseppe, detto Caifa.
E il Procuratore della Giudea perse la memoria: “Non ricordo quell’uomo”
Anatole France nel 1902 pubblicò un racconto “Il Procuratore della Giudea” nel quale Pilato, esiliato, incontrava Elio Lama, conosciuto in Giudea e dopo avere ricordato i suoi rapporti con i siriani, Lamia gli racconta di avere conosciuto una donna, più bella di Cleopatra, poi persa di vista: “Qualche mese dopo che l’avevo perduta, seppi, per caso, che si era unita a un piccolo gruppo di uomini e di donne che seguivano un giovane taumaturgo della Galilea. Si faceva chiamare Gesù il Nazareno, e fu crocifisso non ricordo per quale delitto. Ponzio, ti ricordi di quest’uomo? Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia, si portò la mano alla fronte come chi vuole ritrovare un ricordo. Poi, dopo qualche istante di silenzio: <Gesù> mormorò <Gesù il Nazareno?> No, non ricordo”.
Gesù, nel processo prettamente politico e non giudiziario, pur potendo, non si difese in maniera “tecnica”, né fu difeso come pure gli spettava secondo il diritto romano, insistendo nel messaggio messianico: non aveva sobillato il popolo; non aveva impedito di dare il tributo a Cesare; non si era dichiarato re in terra; aveva affermato di essere il Cristo-Messìa, senza equipararsi a Dio, e i riferimento all’essere Figlio di Dio non costituiva una “bestemmia”.
Augusto Conte, avvocato e saggista
“Il processo a Gesù” è tratto dal libro “Umanesimo della legge – Apparati Giuridici storici letterari” di Augusto Conte, Edizioni Grifo, 2000