20 Giugno 2025

L’estate a Ceglie (un secolo fa)

Piazza Plebiscito a Ceglie Messapia, in una foto del secolo scorso. Visibile un carretto all'inizio di via Dante
Piazza Plebiscito a Ceglie Messapia, in una foto del secolo scorso. Visibile un carretto all'inizio di via Dante

Cosa si viveva e come ci si difendeva dalla calura: dalla battitura dei covoni, alle strade polverose bagnate dall’acqua, fino al tempo scandito dagli “addetti” alla raccolta dei rifiuti, di tutti i rifiuti. E il gelataio ambulante invitava i bimbi a piangere per incrementare le vendite

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di Pasquale Elia

Ceglie, fin dai tempi antichi, è sempre stata una città prettamente agricola, pertanto, anche la vita quotidiana era regolata dal susseguirsi delle attività connesse con l’agricoltura o la pastorizia. Finanche le festività civili e religiose cittadine erano sincronizzate con i lavori dei campi.

L’economia antica della nostra città si reggeva esclusivamente sulla scarsa produzione agricola e sulla pastorizia ed, in epoca più recente, anche sulle attività artigianali e sulla intraprendenza degli stessi artigiani.

Tutti i lavori agricoli erano manuali, non esisteva all’epoca alcun mezzo meccanico. L’unico aiuto veniva fornito dal cavallo, dal mulo o dall’asino. La mietitura, tanto per fare un esempio, la prima delle operazioni di raccolta del frumento maturo consisteva nel taglio delle piante. Essa veniva eseguita a mano per mezzo di un falcetto da contadini o operai agricoli, oppure sradicate da donne, tutti assunti a sciurnàt’, ovvero, a giornata. Le spighe erano poi raccolte in grosse fasce dette covoni (in dialetto paesano manucchij).

I covoni a mezzo di traijn (gli autocarri di quel tempo) venivano trasportati sulle aie pubbliche dove le spighe subivano la trebbiatura. Era questa l’operazione con cui si estraeva il chicco del grano dall’involucro e dagli steli.

I covoni venivano slegati e stesi sul pavimento dell’aia, quindi, un grosso tronco trainato da un animale (cavallo, mulo o asino), che girava come in un mulino batteva le spighe estraendo i chicchi. Questa operazione, a volte, veniva eseguita a mano dagli stessi proprietari, i quali muniti di lunghe pertiche battevano le spighe. Con l’aiuto infine del vento e di setacci (farnàr) veniva separato il cicco di grano dagli scarti e dalla paglia.

Dopo il secondo conflitto mondiale, fine anni quaranta – cinquanta a queste operazioni manuali, piano piano, subentrarono le macchine.

Le strade, tutte le strade cittadine, piazza Plebiscito compresa, erano tutte acciottolate, poi con il passare dei mesi diventavano in terra battuta, per cui nei mesi estivi tanta polvere. Facevano eccezione perché piastrellate (chiangl’) alcune strade del rione “Mammacara” e quelle del “Borgo antico”.

Fin dall’inizio della primavera alcuni operai, nel nostro dialetto conosciuti cazzaricc’, preparavano i ciottoli da stendere poi sulle strade (Via San Rocco, via Sant’Anna, Piazza Sant’Antonio, Piazza Plebiscito, Via Dante, Corso Verdi, Via Martina, ed altre). L’unica strada asfaltata che lo scrivente ricorda era la Ostuni – Ceglie – Francavilla.

A volte, qualche temporale estivo di forte intensità, l’acciottolato che con tanta cura era stato disteso sulle strade principali, sopra indicate,  veniva trascinato dalla corrente delle acque fin alla parte più bassa della città, odierno, Casa di riposo San Giuseppe, per cui lavoro di tanti mesi andava in fumo.

Per combattere la polvere e la canicola, nei mesi estivi, un carretto, appositamente attrezzato con cisterna (carrizz’), trainato in genere da un cavallo, percorreva in andata (una mezzaria) e ritorno (l’altra mezzaria) alcune vie cittadine per bagnarle : via San Rocco, corso Garibaldi, piazza Plebiscito, via Giuseppe Elia, Via F. Argentieri, Via Dante.

Nelle intenzioni degli amministratori comunali quel servizio doveva servire a non sollevare polvere, ma anche eventualmente ad alleviare la calura, ottenendo un risultato contrario; il caldo faceva immediatamente evaporare quella poca acqua fatta cadere, per cui, aumentava il grado di umidità apportando notevole disagio.

La carrizz’ di cui sopra era costituita da un carretto trainato da un cavallo, una cisterna metallica contenente alcuni quintali di acqua. Nella parte posteriore, alla base una saracinesca a cui era collegato un tubo metallico bucherellato del diametro di circa cinque centimetri, lungo quanto era largo il carretto; l’operatore ecologico, si direbbe adesso, apriva la saracinesca e quando l’acqua incominciava ad uscire avviava il cavallo al passo.

Il riformento idrico veniva effettuato nei pressi della Chiesa di San Gioacchino dove c’è un bocchettone antincendio. Altra presa del genere la si trova in Piazza Plebiscito immediate vicinanze di accesso al Corso Garibaldi.

Alla fine degli anni Quaranta dello scorso secolo la maggior parte delle abitazioni cittadine (95%) era ancora sprovvista di servizi igienici per mancanza di fognatura e di acqua. La quantità indispensabile per gli usi domestici veniva attinta dai pozzi o in mancanza di essi la si trasportava a braccia con contenitori in creta o in latta (menz’) attingendola dall’enorme cisterna di acqua piovana ubicata sotto la Chiesa di San Rocco (per chi abitava nel rione Mammacara e zona Corso Verdi). In seguito, dopo il 1914, dalla fontana pubblica ubicata nella vicinanza di detta Chiesa.

Nel tempo seguirono, nell’ordine, quella di Piazza Sant’Antonio, Via Sant’Anna, Piazza  Plebiscito, Piazza Vecchia,  Piazza Umberto I, Via San Vito, Largo Ospizio, Largo Colucci, ecc.

A causa della mancanza di acqua corrente era sconosciuta la vasca da bagno (ecco le pulci), ma c’era u tin’ oppure u’ limm’, altri sconosciuti  erano lo shampoo (ecco di pidocchi), il dentifricio, lo spazzolino da denti. Sarà bene sapere che questi insetti erano di normale amministrazione per quei tempi, nessuno si scandalizzava più di tanto. A volte, alcune mamme per liberare la capigliatura dei loro figli/e da quegli insetti lavavano i capelli   spruzzando su di essi grandi quantità di DDT (quando comparve).

Negli anni Trenta furono appaltati i lavori per la rete fognaria e si protassero per molti anni a causa della natura rocciosa del terreno e soprattutto a causa della guerra  (secondo conflitto mondiale). La roccia, all’epoca, veniva lavorata a forza di braccia con picconi (non esistevano ancora i martelli pneumatici o se esistevano a Ceglie non arrivavano). Durante il periodo bellico tutte le opere di interesse pubblico furono sospese e per mancanza di mano d’opera, ma anche e soprattutto per  mancanza di denaro.

Detto così sembra che tutti potessero avere acqua e fognatura nelle abitazioni, ma non è così. Allora imperava la miseria, grossa miseria. Chi possedeva il denaro necessario per potersi allacciare alle condotte di acqua e di fogna? Solo alcune famiglie.

I pochi casati benestanti, coloro i quali facevano precedere il nome dal famoso don (don Ciccio, don Peppino, don Luigi, don Nicola, ecc.) si contavano sulle dita di una mano. Gli altri, tutti gli altri, dovevano utilizzare il sistema in uso fin dall’antichità, ovvero, recipiente in creta detto “zipepp’ oppure càndr'” tenuto nascosto da qualche parte nella casa.

A seguito di ordinanza sindacale (anno 1744) dovevano, ogni mattina, (per chi abitava nelle sue vicinanze) “………..gettare le sue mondezze, lo romato e staglio, fuori la porta di Juso sulla via che porta alli Cappuccini nello fondo di Natale Ligorio, …..oppure….le sue mondezze, lo romato e staglio nei luoghi stabiliti dall’Università, cioè fuori la Porticella, dove si dice lo Monterrone…..oppure, per chi abitava nelle vicinanze dell’odierna via Giuseppe Elia, già via Municipio…la fascina e terrazzo nel solito luogo dove l’Università paga il censo all’Abbate Pietro Menghi, esattamente nello stesso luogo delle mondezze e romato dove sarà posto il segnale…..”.

I motivi delle suindicate decisioni erano da ricercare nel fatto che gli animali domestici (cavallo, mulo, asino) coabitavano con l’uomo. Le abitazioni erano pertanto anche stalle. Erano, in genere, composte da una greppia con lettiera per l’animale, un canaletto di scolo a cielo aperto che attraversava l’intera abitazione e raggiungeva l’uscio della stessa, sul pavimento, in corrispondenza della lettiera del tipo pozzo a perdere, si trovavano, a volte, alcuni buchi che permettevano di disperdere quanto prodotto di liquido dall’animale durante la notte.

C’era, inoltre, l’arcuèv in cui era sistemato il letto matrimoniale composto da due tristièdd’ in legno per i più poveri, in ferro per i meno abbienti, qualche asse in legno (tavole) sulle quali poggiava il materasso detto saccòn’, riempito di paglia, per i più poveri (85%), con foglie secche di granturco, per il ceto medio (15%) e sotto di esso il famoso zipèpp’.

Un piccolo camino situato, in genere, dall’altra parte della stanza, un tavolo con due sedie, una botola nel muro per il pozzo, quando c’era. In sostituzione dei bicchieri c’era u mumml’ per l’acqua potabile e l’urzùl’ per il vino, mentre il piatto era uno solo per l’intera famiglia, a volte anche cunzàt’, ossia i vari pezzi tenuti insieme con filo di ferro e cemento. Tutti i componenti la famiglia bevevano allo stesso mumml’ o allo stesso urzùl’ e mangiavano nell’unico piatto posto al centro del tavolo.

Per la cronaca le famiglie con il don avevano il materasso di lana.

I cosiddetti traijnieri possiamo considerarli gli antesignani dei più famosi padroncini di automezzi di adesso. Con quel mezzo veniva trasportato di tutto: masserizie, vino, olio, grano, uva, olive, fichi, persone, ecc., in altri momenti l’animale tirava l’aratro per vangare il terreno.

Lo stesso traijn’ il giorno dell’Ascensione trasportava, fin dalla sera precedente, le pie persone al Santuario di San Cosma e Damiano ad Oria, rientrando il giorno dopo festosamente addobbato con campanelli e fettucce di vari colori (da noi conosciuta misùr’), cavallo compreso. I ragazzini invece mettevano in mostra le girandole (vuntalòr’) che i genitori avevano comprato loro dalle bancarelle.

Il vino, in particolare, se e quando veniva trasportato dalla campagna alla casa in città lo si faceva con otri di pelle di capra e poi svuotato nel ben conosciuto capasòn’.

Per quanto sopra descritto il cavallo era di vitale importanza per la famiglia che lo possedeva.

Il grosso problema che dovette risolvere l’Amministrazione comunale era la raccolta degli escrementi umani. Invece di indicare i luoghi dove potevano essere scaricati faceva attraversare ad ora stabilita (mattina), le vie cittaddine da un carretto con una botte in legno (carrìzz’), trainato da un cavallo. Il conducente, a più riprese, ed in genere agli incroci delle strade, gridava a gran voce: uèèè ca mi ni voooooch’ ? A quel grido le massaie, tutte le massaie, si riversavano in strada con il loro fardello e lo svuotavano nella botte, poi, con l’acqua che, in genere, attingevano dal pozzo della propria abitazione o dalla provvista che avevano trasportata dalla fontana pubblica lo lavavano e lo riponevano in casa. Quando poi l’impianto fognario fu completato il lavoro di cui sopra veniva fatto nel pozzetto di ispezione della condotta fognaria.

Altro grosso inconveniente erano i rifiuti solidi urbani. Infatti, il solito traijn’, periodicamente (ogni due o tre giorni), attraversava tutte le strade e un operatore (scopastrad’), munito di una paletta e di una scopa di saggina raccoglieva quanto era stato, da altro operatore, ammucchiato in precedenza. Il brutto si presentava, quando nei mesi invernali, cadeva la neve e durava per alcuni giorni. La famosa carrìzz’, non poteva percorrere le strade cittadine per non rischiare le zampe del cavallo, altrettanto dicasi per lu’ traijn’, per la raccolta dei rifiuti solidi urbani.

Era molto in uso, a quei tempi, l’acchiappamosch’ . Si trattava di una striscia di carta oleata di colore giallo paglierino (cm.9×100) imbevuta di una sostanza profumata e appiccicosa su cui le mosche, zanzare, vespe, moscerini e  quant’altro rimanevano attaccate. Alcuni anni dopo fece la comparsa il famoso DDT meglio conosciuto quale flitt’. Non voglio addentrarmi nei problemi che apportò questo prodotto velenoso, ma devo riconoscere che, all’epoca, esso risolse moltissimi problemi igienico-sanitari.

Fin dai tempi antichi, era fiorente a Ceglie la pastorizia. Il latte che si produceva (ovini e caprini) veniva lavorato sul posto (formaggio, ricotta e derivati). Nei mesi estivi era ed è tuttora ricercata e preziosa la cacioricotta confezionata con latte di pecora o di capra.

Il latte, che all’epoca era alimento esclusivo per bambini, veniva venduto per le strade e munto al momento dell’acquisto. L’allevatore-pastore-lattaio si annunziava al suono di una campanella legata al collo di uno dei quattro o cinque animali che portava al seguito, con i quali percorreva le vie cittadine al grido di latteee…..latteeee…latteeee.

Questa coloratissima tradizione giunta fino ai nostri giorni, di generazione in generazione, fu vietata per motivi igienico-sanitari, non molti anni fa (una trentina), ma la vendita del latte continuò comunque. In sostituzione degli animali al seguito comparve un bidone in alluminio od in acciaio inox trasportato a mano dal famoso allevatore-pastore-lattaio, il quale sempre al grido di  latteee……latteee… latteee…. girava per le strade cittadine.

Nei mesi estivi, nel primo  pomeriggio, intorno alle 17.00, girovagava per le strade un carretto a pedale per la vendita del gelato. Quel signore, certo Leo Salvatore, meglio noto alla comunità cegliese come Tor’di Bamminièdd’ , il quale ad ogni angolo delle strade al grido gilaaat’ ……gilaaat’…..gilaaaat’ …..cattàtiv’ u’ gilàt’ e quindi aggiungeva chiangìt’  chiangìt’ piccìnn’ ca’ mamm’ vi càtt’ u’ gilàt’  (piangete, piangete bambini che la mamma vi compra il gelato).

La scena più folcloristica era il periodo di raccolta delle ulive. Di primo mattino, tante donne cu’ lu’ panàr’ , infilato al braccio, la testa coperta da un foulard, generalmente di colore nero, avvolte nel loro vecchio faccirtòn’,  ridendo e scherzando attraversavano su traijn’ , e o a piedi le vie cittadine per raggiungere i luoghi di raccolta. Gran parte di quelle donne indossava più di un paio di calze fermate al disopra del ginocchio da un elastico confezionato in casa, altre, indossavano pantaloni di taglie vistosamente più grandi.

Altra scena era il periodo della potatura degli alberi di ulivo. Di buon mattino, una frotta di operai con sulle spalle una lunga scale a pioli, dopo che erano stati assunti dal fattore, in Piazza Plebiscito o nella Piazza Vecchia, (i luoghi dove i contadini potevano trovare lavoro), attraversava allegramente le strade cittadine, la maggior parte a piedi, alcuni con il carretto (traijn’), pochi e, forse, i più garibaldini, in due inforcando la bicicletta, uno avanti e l’altro dietro. Alla sera il ritorno era identico, con  la differenza che era visibile sui loro volti la fatica.

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