21 Giugno 2025

La “cursìa” dove c’era un ospedale

Un'immagine natalizia di Corso Garibaldi, noto come "cursìa": ricordo di un antico ospedale
Un'immagine natalizia di Corso Garibaldi, noto come "cursìa": ricordo di un antico ospedale

Erroneamente si crede che l’indicazione del centrale Corso Garibaldi a Ceglie Messapica sia un’espressione dialettale. E invece rappresenta il ricordo di un ricovero per persone bisognose di cure risalente addirittura al 1450

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di Pasquale Elia

Fin da ragazzino ho sempre creduto che “cursia” fosse il vocabolo dialettale derivante da Corso. Quella parola nel gergo paesano (jint’a’ cursija), infatti, indica il ben noto Corso Garibaldi a Ceglie Messapica.

Una struttura ospedaliera di cui sono rimaste tracce nella toponomastica cittadina, risalirebbe nella nostra città a moltissimi anni addietro, per essere più precisi, intorno alla seconda metà del XV secolo. Stiamo parlando della meglio nota “Cursia Sant’Antonio”.

La Curia oritana con un decreto datato 22 agosto 1748 autorizzava il Capitolo della Chiesa Collegiata di Ceglie ad alienare, tra l’altro, alcuni beni stabili di proprietà per estinguere un debito di 4.000 ducati dovuti dal Capitolo ad un certo don Giovanni Polaja di Martina. In quell’atto compare la “Corséa Sant’Antonio”.

Cursìa, corséa o corsìa [1] sono parole con il significato di corridoio, camerata, ospizio, dormitorio, complesso con letti, insomma l’odierno significato di corsia di ospedale.

Il primo ospedale a Ceglie compare intorno al 1450. Era una costruzione, fuori le mura cittadine, nei pressi della odierna Piazza Sant’Antonio, per cui è da pensare che fosse riservato a gente affetta dalle malattie incurabili di allora (colera, peste, tifo, scorbuto, ecc.).

L’ospedale in questione utilizzava, per i suoi bisogni, una cisterna (piscina viene indicata) di proprietà del Capitolo della Chiesa Madre. La cisterna in argomento raccoglieva tutte le acque piovane provenienti dalla collina di San Rocco,  cisterna ancora esistente, tra l’altro, ben recintata, la si può raggiungere attraverso il civico 72 di Corso Garibaldi. Negli anni seguenti quella piscina fu concessa in affitto dal Capitolo al Duca Sisto y Britto.

Nei primi anni del XVI secolo Ceglie divenne possedimento di una delle più importanti famiglie dell’Italia Meridionale: i Sanseverino. 

Nel 1532, la Baronessa Aurelia Sanseverino, già vedova del suo primo marito e cugino don Giovanni Sanseverino, promosse la costruzione di un convento per monache, ma in seguito fu occupato dall’Ordine domenicano maschile. 

In alcuni locali, a piano terra, di quel monastero (poi occupato dalla Casa Comunale), nel 1545, fu alloggiato l’ospedale cittadino e la Cappella annessa dedicata a “San Giovanni Evangelista dello Spedale”. E’ da ritenere che quel “dello Spedale” dobbiamo intenderlo appartenente all’ospedale. Il notaio Donato Antonio Ciracì in un suo atto datato 23 giugno 1606 scrive: “…venerabile hospitale…” (Archivio di Stato di Brindisi).

Ceglie nei secoli passati fu molto spesso colpita da carestie e da pestilenze di ogni genere. La prima epidemia di peste, di cui siamo a conoscenza, si sviluppò negli anni 1603-1606, seguì poi quella del 1656, e infine quella del 1690-1692.

Nel 1622, invece, e poi ancora, nel 1672, la città fu colpita da una gravissima carestia.

In una relazione di una visita pastorale effettuata, nel 1627, da Mons. Ridolfi, vescovo di Oria, ci informa che, a seguito di un miracolo [2] (il Crocifisso parlò) [3], avvenuto nel 1622, la municipalità cegliese fece costruire, a proprie spese, nella Chiesa Madre, una Cappella dedicata al SS. Crocifisso (Cappella ancora esistente).

A ricordo di quell’avvenimento, l’Amministrazione comunale chiese e ottenne di poter rinnovare, annualmente, la propria devozione al Crocifisso con una celebrazione che ricade proprio la seconda domenica di ottobre.

Sono ben quattrocento anni che la città festeggia quell’avvenimento portando in processione per le vie della città il SS. Crocifisso.

Il 2 maggio di ogni anno, si effettua anche una fiera-mercato dedicata proprio al Crocifisso.

Nel 1641, in questo nosocomio morì, a seguito di parto, la duchessina Isabella Noirot, moglie del Duca don Diego Lubrano. A ricordo di quel triste evento il Duca, sconsolato ed afflitto, per la sepoltura (odierna sagrestia Chiesa San Domenico) dell’adorata moglie, fece collocare in quel luogo un monumento funebre in marmo bianco. Alcuni anni fa, quel monumento fu demolito (non capisco il motivo) e sul pavimento fu posizionata una lapide con il nome della duchessa.

Nel 1682, intanto fu edificata l’odierna Chiesa, poi aperta al pubblico nel 1688, a noi tutti nota come Chiesa di San Domenico, ma in realtà è intitolata a “San Giovanni Evangelista dello Spedale”.

Mercoledì 20 febbraio 1743, alle ore 23.45, ultimo giorno di carnevale, una disastrosa scossa tellurica, del 5° – 6° della scala Mercalli, colpì il Salento con epicentro nel Canale d’Otranto. Le città più colpite dal sisma, con gravi danni a cose e persone, di cui si hanno notizie certe, furono Brindisi, Lecce, Francavilla, Latiano, Mesagne, Nardò, Oria, Manduria, Ceglie [4]. Altre scosse si fecero sentire il giorno 10 ottobre alle ore 09.00 e il 31 ottobre alle ore 08.55 [5].

In quell’occasione il nostro ospedale fu seriamente danneggiato, tanto che nel mese di dicembre di quello stesso anno gli amministratori del nosocomio decisero la sua”….riedificazione e la ristrutturazione…..”[6].

Quando Eugenio Principe di Savoia – Carignano, Luogotenente Generale di S.M. il Re nelle Province Napoletane, con decreto in data 17.2.1861, sanciva la soppressione degli Ordini Religiosi e con successiva legge 7 luglio 1866, n° 3036, furono tutti i monasteri di entrambi i sessi, anche il nostro convento dei frati Cappuccini dovette subire la stessa sorte.

Infatti, il 31.12.1866, i pochi frati presenti (tutti cegliesi di nascita) furono sfrattati dall’Intendente dell’Ufficio del Registro di Ceglie (era stato istituito nel 1817, soppresso e trasferito a Ostuni nel 1934).

Con la partenza dei frati il complesso divenne dapprima un ricovero di mendicità e poi l’anno successivo, a seguito dell’epidemia di colera, fu trasformato in ospedale, più noto ai nostri nonni come Lazzaretto.

Negli anni sessanta – settanta dello scorso secolo quella struttura sanitaria era conosciuta quale una delle migliori e funzionali di tutto il Salento, grazie all’opera di Medici di fama nazionale. Il complesso era governato dal cosiddetto E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza).

Quando poi alla gestione locale subentrò quella nazionale il nostro nosocomio ha perso tutto quanto si era conquistato nei secoli passati.

Dai documenti custoditi presso l’Archivio di Stato di Brindisi si ricava che già nella prima metà del ‘500 Ceglie possedeva un suo ospedale intra moenia. E’ da pensare quindi che gli ospedali fossero tre; uno fuori la cinta muraria (immediate vicinanze di Piazza Sant’Antonio), il secondo, nei locali dell’ex Casa Comunale, dove partorì la duchessina Lubrano, il terzo, sempre all’interno della cinta muraria, il ben noto “Ospedale vecchio”, il quale nell’immediato dopoguerra fu adibito a Scuola Media e Ginnasio.

Dalla toponomastica cittadina (largo ospizio) ricaviamo, inoltre, che c’era un convento con annessa chiesetta gestito dai Carmelitani scalzi di Martina, i quali ospitavano (non ospizio con il significato odierno) i pellegrini che provenienti da Napoli dovevano raggiungere Brindisi per poi imbarcarsi alla volta della Terrasanta.  Quel convento a causa del terremoto del 1743 che procurò gravi danni alla struttura non più riparabili fu dai frati abbandonato, ma è rimasto nella toponomastica della cittadina.

Un atto del notaio Tommaso Lamarina (ASBr), datato 12 aprile 1683, riporta l’inventario dei beni immobili di proprietà della Cappella di Sant’Antonio di Vienna situata dentro la Terra di Ceglie. Beneficiario di quei beni (Grància) era il clerico Giuseppe Oltavy della Terra di Turris Paludarum (odierna Torrepaduli, prov. di Lecce), diocesi di Ugento. In seguito, nel 1748, quel beneficio veniva goduto, invece, dal Cappellano rev. don Giuseppe Manfredi di Scorrano (Lecce), il quale fu investito dal Cardinale Francesco Pignatelli, arcivescovo di Napoli (Napoli 6.2.1652 – ivi 5.12.1734). Fu Arcivescovo di Taranto dal 27.9.1683, Nunzio apostolico in Polonia fino al 1703.

Ma perché i Cappellani di quella Chiesa erano della provincia di Lecce? Non è stato possibile saperlo.

Il Sant’Antonio di Vienna, altro non era che il nostro Sant’Antonio Abate. Veniva così indicato perché le reliquie del Santo erano custodite in Francia, nella Chiesa di Saint Antoine del Viennois [7]. Nel nostro dialetto il Santo viene ancora indicato con la pronunzia francesizzata : Sant’Antuén.

Il Santo fu venerato dal popolo, il quale faceva ricorso a lui contro la peste, lo scorbuto e contro tutti i morbi contagiosi. Lo sviluppo del culto popolare del Santo fu dovuto alla sua fama di guaritore dell’Herpes Zoster meglio noto come “fuoco di Sant’Antonio”.

L’origine di questa tradizione risale alle molte guarigioni che sembrano essersi verificate durante un’epidemia che infestava la Francia in occasione della traslazione delle reliquie del Santo da Costantinopoli in Europa.

In onore di Sant’Antonio Abate, il giorno della vigilia della festa (16 gennaio) venivano e vengono tuttora accesi per le strade grossi falò, in particolare nel basso Salento.

La popolarità del culto favorì la pia consuetudine di intitolargli ospedali, chiese, confraternite, edicole. Il suo culto, in Oriente, risale al IV secolo, in Occidente, al V, a Ceglie, in particolare, per quanto di nostra conoscenza, alla fine del secolo XI.

Il Santo, inoltre, è il protettore degli animali domestici. Il 17 gennaio, infatti, sul sagrato delle chiese viene benedetto anche il pane, cosiddetto di Sant’Antonio da far mangiare agli animali domestici malati [8].

Non sappaimo se nella vecchia Chiesa Madre, quella costruita nel 1521 dai coniugi Sanseverino, si venerasse il Santo di Padova.  Le prime notizie certe si hanno solo nel 1630, quando il Duca Diego Lubrano fece costruire un altare dedicato al Santo.

Anche Sant’Antonio da Padova ha il cosiddetto pane dei poveri. Una pia devozione e istituzione assistenziale di notevole rilevanza sociale consistente in una elemosina distribuita ai poveri sotto forma di pane. La benefica opera a sollievo dei poveri ebbe sviluppo alla fine del XIX secolo per merito di Louise Bouffier di Tolone in seguito ad una speciale grazia da lei ottenuta.

L’Amministrazione comunale cegliese in data 14 marzo 1823 chiede al vescovo di Oria il permesso di festeggiare Sant’Antonio di Padova il giorno 13 giugno e non la domenica successiva come era stato fatto fino a quel momento.

Sappiamo che, a cavallo tra il IV e il V secolo d.C. nacque e Ceglie un certo Giuliano (380/5-450/4) il quale fu vescovo della città scomparsa di Eclano, corrispondente all’odierna Mirabella Eclano (AV). Suo padre Memore, anch’egli vescovo, fu amico di Sant’Agostino e di Paolino di Nola. 

A mio parere, ma il mio parere non conta, se a quei tempi viveva nella nostra città un vescovo con la sua famiglia, devo ritenere che la città avesse un certo  numero di abitanti. Giuliano fu allevato nel culto del cattolicesimo. E’ da ritenere quindi che nella nostra piccola Ceglie, dell’epoca, doveva pur esserci una Chiesetta dove veniva celebrata la Messa, il battesimo, la cresima, la comunione, ecc. Chiesetta che negli anni successivi è diventata la Chiesa Madre. Per Chiesa Madre si intende, infatti, quel Tempio costruito per primo sul territorio da cui poi sono nate le altre chiese cittadine [9].

Se vogliamo ritenere per vero ciò che scrisse Rocco Antelmy circa le lettere I.H.S.V. [10], la devozione per Sant’Antonio Abate nella nostra Ceglie è molto più antica di quanto si crede. E’ storicamente provato che il culto per il Santo si diffuse in Occidente nel V secolo.  Perché non pensare che Ceglie, d’altronde geograficamente molto vicina all’Impero d’Oriente, possa avere accettato il culto per quel Santo fin dal primo momento?

Per quanto sopra esposto, posso ritenere che la famosa “Cursìa Sant’Antonio” potrebbe, ripeto potrebbe, riferirsi a Sant’Antonio Abate, tra l’altro, Santo molto venerato nella nostra città alcuni secoli prima di Sant’Antonio di Padova.


[1] Dizionario Etimologico Italiano, Istituto di Glottologia, Università degli Studi di Firenze, Firenze 1968, a cura di C. Battuisti e G. Alessio.

[2] P.Elia, Kailia, Ceglie Messapica, 2008; Kailia, Ceglie Messapica, 2024, p.152.

[3] P. Elia,Vescovo don Gianfranco Gallone omelia durante la Messa di sabato 2 maggio 2025 alla Chiesa Madre.

[4] ASBr., Notaio G.M. Bonavoglia, a.1743, prot. 42, CC.39-40; Notaio Antonio Carasco, a.1745, prot. 16, CC.12/-13/R; Ennio De Simone, Vicende Sismiche Salentine,Lecce 1993, p.73; Cattedrale di Brindisi, targa posta sulla facciata anteriore dx dell’ingresso principale.

[5] F. Ascoli, La Storia di Brindisi, Fasano 1976, p.350

[6] ASBr, Notaio T. Lamarina a.1743, CC. 298/T

[7] Bibliotheca Sanctorum, Roma 1962, p.114; Enciclopedia Cattolica,  Città del Vaticano, Roma 1948, vol.I, p.1539;  F. Novati, Sopra un’antica storia lombarda di Sant’Antonio di Vienna, in Miscellanea d’Ancona, Firenze 1901; F. D’Elia, Il Falò di Sant’Antonio, Note di folklore salentino, Martina Franca 1912; R.Corso,  Il porco di Sant’Antonio in Folklopre Italiano,  I (1925), p.316 e segg; P. Toschi,  La poesia popolare religiosa in Italia, Firenze 1935, pp 107 – 112.

[8] Bibliotheca Sanctorum, Roma 1962, p.115-116.

[9] Biblioteca Capitolare Duomo di Monza, A.B. Berger, Dizionario Enciclopedico della Teologia, della Storia della Chiesa, degli Autori che hanno scritto intorno alla Religione, dei Concilii, Eresie. Ordini Religiosi, ecc. Tradotto in italiano da Padre D. Clemente Biagi, Venezia 1827, Ed. originale 1724, Tomo I e VII

[10] R. Antelmy, Ceglie Messapica, Accenni sulla sua antichità,  Oria 1990, p.90

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